Il tema della rappresentanza femminile nelle istituzioni è sempre molto discusso e, soprattutto quando si parla di quote, scalda gli animi e mostra sensibilità diverse tra i due sessi ma anche al loro interno. Si sente dire, da una parte, che le quote sono sbagliate, che non è giusto obbligare i partiti a inserire donne magari poco competenti pur di far numero e, dall’altra, si sente affermare che, seppure non piacciano neanche a chi dell’aumento delle donne nelle istituzioni ha fatto la propria bandiera, sono un male necessario, l’unico modo per garantire un’adeguata rappresentanza al sesso meno presente nelle assemblee.
Ma cosa si è fatto dal punto di vista dei sistemi elettorali per cercare di riportare un equilibrio anche in politica, calcolando che nella popolazione oramai da diversi anni le donne hanno superato gli uomini (51,6% contro 48,4% sulla base del censimento 2011)?
In generale, in quasi tutte le leggi elettorali sono state introdotte quote che obbligano i partiti a rispettare un determinato equilibrio tra uomini e donne nelle liste: si parla di massimo due terzi di uomini o donne e quindi di un terzo per l’altro gruppo, di 60%, di 50%, in alcuni casi con l’obbligo di alternare i candidati, uno per sesso. Ma per cercare di aumentare il numero di preferenze nei confronti delle donne sono state previste anche delle modalità di voto particolari. Nei comuni sopra i 5.000 abitanti, in alcune regioni (Emilia Romagna, Toscana, Umbria e Campania) e nel nuovo sistema elettorale per la Camera dei Deputati (il cosiddetto Italicum, di cui parleremo prossimamente in un post ad hoc) è prevista la doppia preferenza di genere, ovvero la possibilità per l’elettore di votare per due candidati purché di sesso diverso. E nelle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo c’è invece la tripla preferenza di genere, cioè si possono votare 3 candidati, purché i primi due siano di sesso diverso (per il 2014, in via transitoria, solo il terzo doveva essere di sesso diverso).
Sembra quindi che il legislatore abbia maggiore sensibilità rispetto al tema della presenza femminile nelle istituzioni. Ma è così anche per gli elettori?
Osservando i dati, si può dire che stiamo forse assistendo ad un cambiamento della cultura, ad una certa maturità su queste tematiche. Infatti la presenza di donne alla Camera dei Deputati è cresciuta dal 21,1% del 2008 al 31,4% del 2013, nonostante non ci fosse ancora una legge che prevedeva la doppia preferenza. Nello stesso anno al Senato la quota di donne è passata al 28,3% rispetto al 17,9% di cinque anni prima.
Fig. 1 Trend della presenza femminile alla Camera e al Senato (1948-2013)
Il dato è ancora più rilevante se si pensa che, nella graduatoria internazionale, l’Italia è passata dal 55° posto del 2010 al 32° di oggi, decima tra i paesi dell’Unione europea. La media della presenza di donne nei parlamenti nazionali dei 28 paesi europei è pari al 28,4%, ma con differenze evidenti tra gli stati. Se, infatti, i paesi nordici, in cui la cultura della presenza delle donne nelle istituzioni e del loro ruolo paritario nella società è ben più avanzata, sono ben al di sopra dell’Italia, con il 42-44% di donne (Svezia e Finlandia), sono alcuni dei paesi di più recente ingresso a far scendere la media, restando in coda con percentuali davvero basse (10,1% in Ungheria, 12,5% a Cipro, 12,9% a Malta), così come l’Irlanda dove si raggiunge solo il 16,3%. E se si guarda la media dei 15 paesi che hanno fatto per primi il loro ingresso nell’Unione europea le donne sono pari al 32,7% e l’Italia è ancora leggermente indietro.
Tab. 1 Presenza femminile nei parlamenti nazionali dei 28 stati membri dell’Unione europea
La progressione in Italia è ancora più evidente nei dati sulla presenza al Parlamento europeo, dopo l’avvento della tripla preferenza di genere: si è passati dal 22,2% del 2009 (ben sotto la media europea di 35,2%) al 39,7% del 2014, superando per la prima volta la media dei paesi dell’Unione (36,8%).
Come dicevamo, sembra che si stia raggiungendo una certa maturità, anche in quei contesti in cui non sono previsti strumenti ad hoc per aumentare la rappresentanza femminile. Anche perché non va dimenticato che, anche con i vari sistemi di preferenza di genere, aumentare le possibilità di voto per le donne non significa necessariamente vederle elette al momento dello scrutinio e, viceversa, non introdurre questi meccanismi non è detto che ne comporti l’impossibilità di elezione, se ci si trova in determinate condizioni. Lo si vede anche nelle regioni: se la media di donne nei Consigli regionali italiani è del 17,4% (che fa segnare un +5,3% rispetto al 2010), possiamo dire che i dati sono molto variabili da regione a regione. Le maggiori difficoltà si registrano al Sud, dove, ad esempio, la Basilicata non ha nessuna donna nell’assemblea, e le regioni che hanno introdotto la doppia preferenza di genere riportano dati tra i più alti, con il 34% in Emilia Romagna, il 26,8% in Toscana, il 23,5% in Campania e il 19% in Umbria. Ma ci sono regioni che non hanno modificato in maniera rilevante il loro sistema che fanno registrare incrementi notevoli e percentuali elevate, come il Piemonte, terzo in classifica con il 25,5% di donne in Consiglio. O il Veneto, che ha oggi il 21,6% di donne contro il 6,7% del 2010 e in cui è prevista l’alternanza di genere ma non la doppia preferenza. Segno che, al di là delle norme, qualcosa si sta muovendo anche in Italia, come nelle altre democrazie. Anche se nell’osservare questo cambiamento non vanno sottovalutati gli effetti del dibattito sulle quote e sulla preferenza di genere, che, comunque, è servito a far circolare di più le informazioni sulla rappresentanza femminile e, quindi, ad accrescere la sensibilità dei partiti e dei cittadini rispetto a questo tema.
Ma molta sembra la strada ancora da percorrere. Se infatti osserviamo i dati appena evidenziati, vediamo che a mano a mano che si passa dai livelli più lontani dagli elettori a quelli più vicini, cioè dal Parlamento europeo, al Parlamento nazionale, alle assemblee regionali, la quota di donne scende. Scende ancora se guardiamo il dato dei sindaci donne, che sono (sulla base dei dati del Ministero dell’Interno del dicembre 2014) soltanto il 13,5% del totale. Erano il 10,6% nel 2010, quindi stanno aumentando anche a questo livello, ma con molta più fatica.
Se l’obiettivo, quindi, è quello di ristabilire un equilibrio anche nella sfera politica, è necessario continuare sulla strada della sensibilizzazione, in tutti i settori della vita, privata e pubblica. Coinvolgendo in questa azione i partiti, le organizzazioni di società civile, i mass media. Per far sì che si riesca a favorire un cambiamento di mentalità e approccio nella gestione non solo politica ma anche economica e sociale del nostro paese.